«Cinque ore penose: ansia fino al confine, silenzio, cerotti alla morfina, aspirazione della saliva alla stazione di servizio sul Gottardo. Cinque ore con una mamma che sta vivendo quanto di più innaturale ci possa essere per una mamma. Carmen mi raccontava la sua vita, come per non perdere il filo che la stava portando dove non avrebbe mai voluto, per una scelta di Fabo che lei non voleva approvare e non voleva condannare: voleva solo rispettare». Un racconto quasi minuto per minuto, freddo e straziante. È quello del viaggio, lo scorso 25 febbraio, verso la clinica svizzera «Dignitas» dove due giorni dopo Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo, tetraplegico e cieco dopo un incidente stradale nel 2014) avrebbe trovato l’assistenza nella morte volontaria. A rievocare quei momenti — in un libro intitolato «Credere, disobbedire, combattere», Rizzoli, presentato ieri a Roma — è Marco Cappato, radicale, ex europarlamentare nella lista Bonino. E soprattutto il militante dell’associazione Luca Coscioni a cui Fabo, la sua famiglia e la fidanzata Valeria si erano rivolti l’anno prima per avere un sostegno. Una richiesta tramite una mail «simile a quelle che ricevevo ogni giorno, da quando con Mina Welby e Gustavo Fraticelli (entrambi della Coscioni, ndr ) decidemmo di disobbedire alla legge e di aiutare i malati italiani — racconta ora Cappato — che vogliono andare in Svizzera per ottenere l’assistenza alla morte volontaria». Quando il radicale va a trovarlo in via Giambellino, dove viveva a Milano, il deejay, 40 anni, immobilizzato sul letto, riesce a dirgli: «Aiutami o trovo qualcuno che mi spara. Non è un problema per me, in questo quartiere conosco le persone giuste». È mezzogiorno. Sul furgone guidato da Cappato diretto a Pfäffikon, Fabo è dietro, «a tratti vigile, a tratti sedato». Forse «solo la multa svizzera per eccesso di velocità (sei chilometri in più del limite) avrebbe potuto farlo sorridere». Ma venne recapitata al Giambellino un mese dopo la morte.