Una diagnosi di tumore al seno in gravidanza rappresenta una scelta difficile per la donna, avere salva la propria vita o metterla a rischio per fare nascere il bambino, e una sfida per il medico. Poche ancora oggi le linee guida per l’ottimizzazione del trattamento che richiama anche questioni di carattere etico. Ne abbiamo parlato con Nicoletta Biglia, Università di Torino e Responsabile del Reparto di Ginecologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino.
Professoressa Biglia, qual è l’incidenza del tumore al seno in gravidanza?
L’insorgenza di un tumore al seno durante la gravidanza è un evento piuttosto raro, rappresenta infatti all’incirca l’1-3% di tutti i tumori mammari, ma tuttavia non è trascurabile considerando che vengono mediamente diagnosticati da 1 a 7 carcinomi ogni 10.000 donne in stato interessante. È un dato, comunque, destinato a crescere e la ragione è da ricercarsi nella tendenza della donna ad avere oggi gravidanze, specie la prima, in età sempre più avanzata.
Quali sono le implicazioni maggiori di un tumore diagnosticato in questa fase della vita della donna?
Sono diversi i fattori da tenere in considerazione: principalmente il periodo della gravidanza in cui il tumore viene diagnosticato, lo stadio della malattia e il desiderio della paziente di avere un figlio. Infatti il trattamento che potrebbe rendersi necessario per la cura della malattia, potrebbe risultare dannoso per il feto. L’obiettivo dunque è di ottenere il migliore risultato possibile in queste circostanze.
Quali sono gli aspetti più critici per la diagnosi di un tumore del seno durante la gravidanza?
Il problema principale è il ritardo diagnostico che in gravidanza si calcola essere compreso fra 2 e 6 mesi. Le ragioni sono molteplici. Prima di tutto i cambiamenti che si verificano fisiologicamente in gravidanza nelle mammelle che aumentano di volume e di consistenza e ostacolano l’identificazione precoce di un nodulo. Poi il fatto che il ginecologo, durante le visite di controllo periodiche, sia più portato a valutare lo stato di salute generale della donna e del feto piuttosto che a ricercare l’insorgenza di una patologia mammaria. Infine l’ingiustificato ma diffuso timore a sottoporre la donna in gravidanza agli approfondimenti diagnostici necessari per chiarire la natura di un nodulo. In linea generale i procedimenti diagnostici in gravidanza non differiscono da quelli adottati al di fuori di questo periodo; esame clinico, ecografia mammaria ed ago aspirato nei casi sospetti dovrebbero precedere l’esecuzione della mammografia che, se necessario, può comunque essere effettuata poiché con adeguati accorgimenti tecnici, la quantità di radiazioni a cui viene esposto il feto è trascurabile.
In caso di gravidanza, la prognosi di un tumore al seno è peggiore?
No, la prognosi non è aggravata rispetto a donne in cui la diagnosi di tumore avviene in condizioni di normalità, di pari età e allo stesso stadio di malattia. Così come l’interruzione della gravidanza non migliora la sopravvivenza della donna, tanto che l’aborto viene valutato e consigliato solo nel caso in cui la prosecuzione della gravidanza comporti un ritardo significativo nella somministrazione della chemioterapia e della radioterapia o per espressa volontà della donna.
Quali sono le opzioni terapeutiche possibili in gravidanza?
Prima di tutto va detto che dopo la trentaduesima settimana, accertata la vitalità fetale, i problemi legati all’esecuzione di qualsiasi trattamento, chirurgico o medico, necessario per la cura del tumore vengono risolti con l’induzione del parto. La chirurgia sulla mammella, e quindi l’effettuazione dell’anestesia, non pongono particolari rischi per il feto in qualsiasi periodo di gravidanza. Tuttavia, vi sono alcune peculiarità; ad esempio il trattamento radioterapico sulla mammella o sulla parete toracica è controindicato in gravidanza, per un possibile impatto sull’organogenesi nelle prime venti settimane e sulla crescita fetale successivamente. Questo rende consigliabile la mastectomia con ricostruzione protesica al posto dell’intervento conservativo seguito da radioterapia nei casi i cui non sia possibile indurre il parto in tempi brevi. Per quanto riguarda l’effettuazione della biopsia del linfonodo sentinella in gravidanza, i dati disponibili sono ancora molto scarsi. La metodica sembra efficace anche in questo periodo e le simulazioni dimostrano che con l’isotopo radioattivo tecnezio-99m l’esposizione fetale alle radiazioni dovrebbe essere molto bassa. Non vi sono studi invece sull’utilizzo dei coloranti vitali per l’identificazione del linfonodo sentinella. Infine anche la scelta del tipo di chemioterapia pone problemi particolari poiché quasi tutti i farmaci penetrano in una certa misura la barriera placentare, tanto da aumentare il rischio di malformazioni fetali nel primo trimestre, che va abbassandosi nel secondo e terzo quando invece sono maggiori le probabilità di un parto prematuro o difetti di crescita.
Può illustrare i rischi correlati a chemioterapia per ogni trimestre?
Qualsisi chemioterapia è controindicata nel corso del primo trimestre di gravidanza; in questo periodo il tasso di malformazioni del feto associate a chemioterapia si stima intorno al 12,7-17% se la terapia viene eseguita con un unico farmaco e fino al 25% con trattamenti combinati, mentre le nascite sottopeso si verificano in circa il 40% dei casi. Per i mesi successivi i rischi si abbassano poiché molti dei farmaci utilizzati non hanno grosse influenze sul feto nel secondo e terzo trimestre, tanto che in assenza di elevati rischi per la madre la tendenza è oggi quella di aspettare fino a che il sistema nervoso centrale del feto abbia raggiunto il completo sviluppo, intorno alla sedicesima settimana. Gli schemi utilizzati in genere escludono gli alchilanti e gli antimetaboliti e prevedono l’uso di antracicline che possono essere somministrate con relativa sicurezza. Sui taxani vi sono dati molto limitati ma incoraggianti; l’esperienza clinica per ora anedottica non riporta un elevato tasso di aborti spontanei o morti endouterine o malformazioni attribuibili a questi farmaci. Controindicato è invece l’uso del trastuzumab che appare associato ad un aumentato rischio di oligoidramnios, cardiotossicità e ritardi di crescita fetale. Controindicata invece in gravidanza è la terapia ormonale a base di antiestrogeni il cui utilizzo viene posticipato dopo l’espletamento del parto.
Quanto incide la chemioterapia sul parto e l’allattamento al seno?
Se il bambino nasce entro le due settimane dalla fine dell’ultimo trattamento chemioterapico esiste il rischio che il bambino nasca neutropenico da madre neutropenica, cioè con minor numero di neutrofili, ossia delle cellule che combattono le infezioni. L’allattamento al seno è sconsigliato a donne che si sono state sottoposte a trattamenti chemioterapici recenti.
Quali sono le indicazioni terapeutiche in linea generale per il tumore al seno in gravidanza?
Come ho detto la terapia del tumore al seno in gravidanza è un problema complesso, condizionato fondamentalmente dall’estensione della malattia e dall’epoca della gestazione. Nelle forme iniziali, il trattamento chirurgico dovrebbe essere attuato tempestivamente e rinviato dopo il parto solo in prossimità del termine fisiologico della gravidanza. Se l’aggressività del tumore rende consigliabile l’inizio tempestivo della chemioterapia, potrebbe essere necessaria l’interruzione della gravidanza nei tumori diagnosticati nei primi tre mesi, mentre dopo questo periodo la chemioterapia con antracicline può essere eseguita anche portando avanti la gravidanza. Mentre una chirurgia conservativa con induzione anticipata del parto e radioterapia subito dopo l’intervento chirurgico, è una opzione che si può prendere in considerazione nel terzo trimestre, di contro se la diagnosi avviene più precocemente la mastectomia radicale è l’intervento di prima scelta, per l’impossibilità di esporre alla radioterapia il feto. Se il trattamento può essere dilazionato dopo la nascita del bambino, in genere si procede alla soppressione della produzione di latte, per diminuire il volume e la vascolarizzazione della ghiandola in previsione ad un intervento chirurgico, o se vengano somministrati farmaci chemioterapici che, passando attraverso il latte materno, possono essere nocivi per il neonato.
Una gravidanza portata naturalmente a termine dura circa quaranta settimane. Attendere un periodo così lungo prima di iniziare un trattamento con una diagnosi di tumore non potrebbe mettere a repentaglio la vita di una donna, specie se il tumore è di alto grado, aggressivo o metastatico? Quali potrebbero essere le scelte terapeutiche nelle condizioni più a rischio?
Ci sono tre opzioni terapeutiche che vanno valutate con attenzione dalla donna e dal medico, soppesando anche le implicazioni etiche. La prima possibilità è di ritardare il trattamento fino al momento di una nascita senza rischi, ormai anticipabile intorno alla 32°-33° settimana; in questo caso è la madre a correre un rischio che è difficile da quantificare. Il che significa anche doversi prendere cura di un bambino prematuro e al contempo fare fronte agli effetti collaterali di una terapia. La seconda opzione è interrompere la gravidanza per consentire l’inizio di un normale trattamento per la madre. Questa, che potrebbe essere la scelta più sicura per la sua salute, è inaccettabile per alcune donne contrarie all’aborto in qualsiasi situazione, specie nei casi in cui la terapia rende impossibili nuove gravidanze. L’ultima opzione è trattare il tumore nella maniera più efficace possibile, pur continuando la gravidanza e riducendo al minimo i rischi per il feto.
Quando è possibile pensare ad una nuova gravidanza dopo un tumore mammario?
Prima di tutto occorre dire che una successiva gravidanza non sembra influenzare sfavorevolmente la prognosi della malattia; anzi esiste un tendenza verso una prognosi migliore nelle donne che concepiscono dopo aver avuto un tumore mammario, probabilmente per l’effetto noto come “healthy mother bias”, cioè sarebbero le donne libere la malattia e con tumori meno aggressivi ad andare incontro ad una gravidanza.
Empiricamente si consiglia di lasciar trascorrere un intervallo di almeno due anni tra la diagnosi di neoplasia ed una nuova gravidanza, poiché il rischio di recidiva di tumore è maggiore in questo lasso di tempo, con tutti i problemi che ne potrebbero derivare.
Francesca Morelli