Quest’area di interesse comprende le tematiche ginecologiche di maggior rilievo nell’ambito della salute femminile sessuale e riproduttiva e che non rientrano nelle sezioni specificatamente dedicate a contraccezione, endometriosi, malattie sessualmente trasmissibili e disturbi della fertilità.
La salute sessuale e riproduttiva è sempre più considerata componente integrante della salute generale e del benessere psico-fisico della donna, poiché ha effetti sulla qualità di vita personale e affettiva. Essa è correlata ai ritmi fisiologici della ciclicità ormonale mensile e regolata da complessi meccanismi di natura neuroendocrina, basati cioè sul collegamento tra strutture cerebrali e apparato endocrino, che è deputato alla produzione degli ormoni sessuali.
Il dolore pelvico cronico femminile è una condizione fortemente debilitante che altera la qualità di vita delle donne. Si definisce tale quando un dolore continuo o intermittente avvertito al basso addome o alla pelvi dura da più di 6 mesi, comportando disabilità funzionale e limitazione nelle comuni attività quotidiane.
Il dolore pelvico cronico rappresenta una problematica silenziosa diffusa tra le donne; secondo le statistiche colpisce dal 2 al 25 % della popolazione femminile tra i 18 e i 50 anni e rappresenta la causa del 10-40% di tutte le visite ginecologiche con un pesante impatto economico sia sulle spese sanitarie sia sulla perdita di produttività.
Per le caratteristiche di insorgenza e di localizzazione del dolore, talvolta legate alla ciclicità mestruale, spesso si indagano cause di tipo prettamente ginecologico. Tuttavia la complessità dell’anatomia della piccola pelvi, che accoglie gli organi dell’apparato riproduttivo, urinario e gastroenterico, oltre che una infinità di muscoli, legamenti, articolazioni, innervazioni, obbligano il clinico ad una vasta conoscenza di cause di disabilità che sono spesso multifattoriali.
Tra le problematiche ginecologiche le cause più frequenti sono rappresentate dalla dismenorrea ovvero il dolore mestruale che compare solitamente nei primi giorni del ciclo mestruale (causato dalle contrazioni uterine e da mediatori dell’infiammazione) e che spesso si associa a nausea, vomito, diarrea, cefalea, vertigini e senso di spossatezza. La dismenorrea tende a persistere nelle nullipare e a risolversi dopo il parto. In caso di persistenza, la dismenorrea deve far sospettare la presenza di endometriosi che rappresenta una delle più frequenti cause ginecologiche di dolore cronico.
Anche i disturbi infiammatori-infettivi cronici della pelvi (come, ad esempio, endometrite, ascessi tubo-ovarici, salpingiti, peritoniti), spesso complicanza di infezioni a trasmissione sessuale (da gonococco, da clamidia…) misconosciute, trascurate o non adeguatamente trattate, possono essere causa di dolore cronico.
La sindrome da congestione pelvica, fino a non molto tempo attribuita esclusivamente al sesso maschile, può generare dolore che si accentua nella stazione eretta prolungata e che, durante il periodo premestruale, è determinato dalla presenza di vene uterine e ovariche dilatate e prive di tono elastico.
Tra le cause più frequenti di dolore pelvico di origine non ginecologica troviamo: la sindrome dell’intestino irritabile, caratterizzata da dolore addominale ricorrente, alterazioni di frequenza e consistenza dell’alvo in senso stitico o diarroico associate a gonfiore addominale; il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa che fanno parte delle malattie infiammatorie croniche intestinali, differenziandosi per i tratti di intestino interessati, ma entrambe caratterizzate da dolore pelvico associato ad alterazioni della defecazione con perdite di sangue e muco con le feci.
Altre cause di dolore cronico sono le infezioni urinarie ricorrenti (cistiti, uretriti) e la cistite interstiziale. Quest’ultima, in particolare, rappresenta una causa di dolore pelvico la cui origine è ancora misconosciuta e sottostimata (solo il 20% delle cistite interstiziali viene diagnosticato), il cui corredo sintomatologico è caratterizzato da: dolore pelvico e soprapubico, pollachiuria (emissione con elevata frequenza di piccole quantità di urina), urgenza alla minzione, difficoltà ad urinare e ematuria (presenza di sangue nelle urine).
Infine per un corretto inquadramento diagnostico del dolore non si può prescindere dalla valutazione dell’apparato muscolo-scheletrico. Il dolore di origine muscolo-scheletrica ben si differenzia rispetto ad altre possibili cause poiché solitamente non si modifica in correlazione all’andamento del ciclo mestruale, spesso si irradia all’anca e alle cosce ed è accompagnato da una diminuzione del tono muscolare addominale e pelvico.
La persistenza dei sintomi, lo stato di infiammazione cronica e i complessi sistemi di innervazione pelvici multi-organo, giustificano la presenza di quadri clinici complessi e spesso multifattoriali. Per tale ragione, il dolore pelvico cronico richiede in molti casi un processo diagnostico lungo e articolato che procede con l’esclusione delle diverse patologie che lo possono determinare.
In considerazione della complessità e dell’origine multifattoriale della problematica, è opportuno rivolgersi a centri specializzati dove lavorano equipe multidisciplinari adeguatamente formate alla diagnosi e trattamento di questa patologia.
Le terapie comprendono: farmaci (es. farmaci che bloccano la catena infiammatoria, farmaci che innalzano la soglia del dolore, miorilassanti, anestetici locali, antidolorifici), riabilitazione del piano perineale, neuromodulazione, intervento su nervi specifici (es. nervo pudendo), impiego di ultrasuoni, terapia manuale. Possono risultare utili anche altre strategie, come le tecniche di rilassamento, il management dello stress, un approfondimento delle problematiche sessuali e altri approcci rivolti alla sfera psicologica.
La vulvodinia rappresenta una patologia ancora poco conosciuta, rientra nella grande famiglia del dolore pelvico cronico e si presenta come sindrome dolorosa vulvare in assenza di alterazioni vulvari clinicamente visibili e di patologia neurologica evidente.
Nonostante già nel 1800 fossero stati descritti alcuni sintomi riconducibili a questa patologia, bisogna aspettare il 1880 per avere notizia di una prima diagnosi, ma è soltanto alla fine degli anni settanta del secolo scorso che la patologia diventa oggetto di approfondimento da parte degli specialisti.
Da recenti indagini epidemiologiche americane risulta che circa il 15% delle donne è colpita da questo disturbo nel corso della vita, in media fra i 17 e i 40 anni, ma la percentuale potrebbe verosimilmente essere maggiore, perché spesso la patologia non viene riconosciuta e diagnosticata a causa di una inadeguata preparazione degli specialisti.
Abbiamo intervistato la Dott.ssa Rossana Cirillo, specialista in Ginecologia e Ostetricia, che da anni si occupa di vulvodinia e disturbi da dolore da attività sessuale presso il suo ambulatorio di Genova.
Perchè è difficile diagnosticare la vulvodinia?
Perché prima di tutto bisogna conoscerla. Con il termine vulvodinia viene indicato un bruciore o un dolore cronico, continuo o intermittente, localizzato nell’area vulvare. Può manifestarsi in assenza di fattori conosciuti e presentarsi in risposta ad un qualsiasi stimolo fisico (abbigliamento stretto, sfregamento occasionale, rapporti sessuali, ecc).
In particolare, il bruciore si manifesta con modalità e intensità diverse – da esito di ustione a sensazione di fiamma che brucia- ed è il sintomo riferito con più frequenza dalle pazienti.
Spesso alla visita ginecologica convenzionale non si riscontra nulla di obbiettivo: non sono presenti infezioni o traumi e tutti gli esami di routine sono negativi. I sintomi si manifestano in modo subdolo e non sono riconducibili ad alterazioni patologiche clinicamente evidenziabili.
Per questo la vulvodinia è stata a lungo classificata fra i disturbi di origine psicosomatica, misconosciuta dai ginecologi e ignorata anche dai sessuologi. Non se ne faceva cenno nelle classificazioni dei disturbi sessuali e solo di recente è emersa l’esigenza di comprenderne la patogenesi ed elaborare percorsi diagnostico-terapeutici dedicati.
Ad oggi sono stati compiuti molti passi avanti e la ricerca prosegue, ma è ancora necessario insistere sulla formazione dei professionisti, troppo spesso impreparati ad affrontare il problema.
In cosa si differenzia la vestibolodinia?
La vestibolodinia interessa principalmente le mucose che circondano l’ingresso vaginale, e viene quindi considerata una forma localizzata di vulvodinia, che invece colpisce quasi interamente la regione vulvare, comprendendo il perineo e la zona anale.
Si conoscono le cause di questa patologia?
Il dolore fisico ha pressoché sempre una causa biologica che può non essere immediatamente visibile e necessita di un esame medico obbiettivo, appropriato e competente.
Per la vulvodinia è stata avanzata l’ipotesi di una predisposizione genetica, ma le cause rimangono ancora parzialmente sconosciute.
Spesso la vulvodinia è una risposta eccessiva agli stimoli infiammatori ed è causata da una disfunzione nella percezione del dolore provocato dalla contrazione muscolare o dalla ipersensibilità delle terminazioni nervose. Può manifestarsi in forma isolata (come unico sintomo) oppure in associazione ad altre malattie o infezioni ginecologiche, quali ad esempio infezioni da candida, endometriosi, sindrome della vescica dolorosa/cistite interstiziale, ma anche a sindrome del colon irritabile, fibromialgia, emicrania, disturbi dell’umore e patologie neurologiche.
La vulvodinia può essere curata?
Certamente, è possibile intervenire ma non esiste una terapia standardizzata. Gli interventi terapeutici devono essere calibrati sulla singola paziente, tenendo conto della specificità della sua malattia e dell’eventuale concomitanza di altre patologie.
Le strategie terapeutiche possono avvalersi di farmaci diversi e oggi disponiamo anche della tecnica di elettrostimolazione antalgica, così come può essere indicata la riabilitazione della muscolatura del pavimento pelvico.
Spesso è necessario il coinvolgimento di più figure professionali che mettano in atto tutte le opzioni terapeutiche per eliminare la sintomatologia e contribuire al miglioramento della qualità di vita delle pazienti.
In molti casi risulta utile anche il supporto di uno psicoterapeuta.
Le donne colpite da vulvodinia soffrono frequentemente di isolamento e incomprensione con pesanti ripercussioni sulla vita sociale e di coppia. E’ quindi fondamentale instaurare un rapporto di fiducia e ascolto fra la paziente e il medico che accompagnerà il percorso di cura, e che potrà dare tutti i consigli utili, sia igienici sia comportamentali, per aiutarla a riacquistare la normalità nella vita quotidiana e una sessualità libera dal dolore.
Per questo ci si deve affidare a professionisti competenti e preparati, che siano in grado di affrontare il problema in tutti i suoi aspetti e, quando necessario, coinvolgano altri specialisti nell’iter terapeutico. Purtroppo in Italia i centri specializzati sono ancora pochi.
Come possiamo aiutare le donne che soffrono di vulvodinia?
Aiutiamo le donne parlando del problema e aumentando la consapevolezza e l’informazione, anche dei loro partner.
La vulvodinia è una malattia, e come tale deve e può essere curata. Internet svolge un ruolo molto importante nella divulgazione e oggi è possibile trovare in rete informazioni chiare e dettagliate.
E poi ci sono le associazioni di volontariato, medici e pazienti che insieme si dedicano con impegno alla diffusione di una informazione corretta e a promuovere attività di ricerca e di formazione medica.
Anche in questo caso, come in moltissimi altri, l’alleanza fra medico e paziente può fare la differenza e dare un contributo significativo per migliorare la situazione. L’obbiettivo comune rimane il riconoscimento completo di questa patologia, anche da parte delle Istituzioni, e il suo inserimento nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e nei percorsi formativi delle figure sanitarie.
L’intervista è stata realizzata grazie alla collaborazione con l’Associazione VIVA – Vincere Insieme la Vulvodinia e Associazione Vulvodinia.info Onlus.
Il fibroma uterino rappresenta uno dei problemi ginecologici più diffusi nella popolazione femminile in età fertile. Si tratta di un tumore benigno delle cellule muscolari lisce dell’utero (anche indicato come mioma o leiomioma) che colpisce fino al 40% delle donne (nelle popolazioni afroamericane la percentuale sale fino al 70%). Sulla base dei dati epidemiologici, appare indubbio considerare i fibromi uterini come una delle forme tumorali benigne più frequenti dell’apparato genitale femminile.
Il mioma si presenta come massa nodulare di dimensioni variabili (da pochi mm a diversi cm) e le cause per cui si sviluppa non sono ancora del tutto chiare, ma si ipotizza un intervento di più fattori, primi fra tutti ormonali (sembra che estrogeni e progesterone ne influenzino la crescita) e genetici.
Anche se si tratta di un disturbo molto diffuso, la degenerazione maligna è un’evenienza rarissima, stimata nello 0,2% dei casi.
Sintomi
Il fibroma è asintomatico nella maggior parte dei casi: la diagnosi avviene generalmente per un riscontro occasionale durante una visita ginecologica o un’ecografia pelvica. Quando presenti, i sintomi possono essere di gravità variabile, a seconda del numero, delle dimensioni e della sede dei fibromi stessi sino a inficiare pesantemente la qualità di vita. Secondo uno studio condotto su una popolazione di più di 21.000 donne in 8 Paesi, tra cui l’Italia, è risultato che nel 54% dei casi i sintomi causano un peggioramento significativo della qualità della vita che interessa in particolare la sfera sessuale (43%), la performance lavorativa (28%) e le relazioni interpersonali (27%). La sede, in particolare, gioca un ruolo rilevante e, infatti, sono i fibromi sottomucosi (che tendono a sporgere all’interno della cavità uterina e che rappresentano il 5% dei casi) e quelli intramurali (che si sviluppano nello spessore della parete uterina e che rappresentano il 50% dei casi) che danno più frequentemente sintomi rispetto a quelli sottosierosi (che crescono al di fuori dell’utero, e che rappresentano il 35% dei casi). Le manifestazioni più comuni sono: alterazioni del ciclo mestruale con sanguinamenti uterini dolorosi e abbondanti, che possono essere responsabili di anemizzazione; il dolore pelvico è meno comune e in genere associato a complicanze (ad esempio, torsione del fibroma se peduncolato). Possono comparire sintomi da compressione quando i fibromi sono molto voluminosi, con manifestazioni variabili a seconda degli organi coinvolti (vescica, retto).
Fibromi e fertilità
Solo in una minoranza dei casi i fibromi possono interferire con la fertilità, quando le dimensioni e la sede sono tali da rappresentare un ostacolo al concepimento. Durante la gravidanza i fibromi crescono per effetto della produzione ormonale, ma in genere non danno problemi; alcuni studi evidenziano un incremento di complicanze ostetriche (aborto spontaneo, parto pre-termine e problemi placentari), ma i dati attualmente disponibili non sono concordi. Sicuramente, invece, è più alta la percentuale di parti chirurgici mediante taglio cesareo nelle donne con fibromi, in particolare se precedentemente sottoposte a terapia chirurgica.
Terapia
Ad oggi non esiste una rete nazionale di centri di riferimento e non è ancora stato strutturato un percorso diagnostico-terapeutico. Fondamentale è affidarsi a specialisti esperti per un corretto inquadramento della problematica e per la definizione dell’intervento terapeutico più opportuno.
I fibromi asintomatici non richiedono alcun intervento specifico: è sufficiente una normale sorveglianza, come consigliata di routine a tutte le donne (visita ginecologica annuale associata a ecografia pelvica transvaginale). Solo il fibroma “sintomatico” richiede un intervento che deve essere sempre di tipo medico in prima istanza, riservando quello chirurgico a casi specifici.
La terapia medica consolidata si basa su farmaci ormonali di ampio utilizzo e di riconosciuta efficacia nella pratica clinica (estro-progestinici, progestinici) che hanno lo scopo di regolarizzare i cicli mestruali.
Come novità nella terapia medica, è di grande interesse l’ulipristal acetato (UPA), registrato ad oggi come metodo di contraccezione d’emergenza, ma che da ulteriori studi clinici si è dimostrato essere anche un efficace trattamento orale per la terapia pre-chirurgica dei fibromi uterini. Esso appartiene a una nuova classe di molecole (i modulatori selettivi del recettore del progesterone), in grado di controllare il sanguinamento molto rapidamente, già entro 1 settimana dalla somministrazione, in oltre il 90% delle donne trattate, così come pure di ridurre il volume dei fibromi e dell’utero, con un miglior profilo di tollerabilità rispetto agli altri farmaci normalmente utilizzati. La terapia con ulipristal, inoltre, può essere ripetuta nel tempo consentendo di allungare il periodo in cui la donna è priva di sintomi e di diminuire le dimensioni del fibroma, con maggiori possibilità di evitare l’intervento chirurgico o di programmare nel tempo l’intervento per consentire una gravidanza.
La chirurgia, invece, è indicata, solo dopo il fallimento della terapia medica, in presenza di fibromi di dimensioni eccessive o in previsione di una gravidanza quando i fibromi, per numero e sede, possono interferire con la fertilità. L’intervento chirurgico può essere di tipo conservativo (miomectomia) con rimozione del fibroma o demolitivo (isterectomia) con asportazione dell’utero. È fondamentale che la scelta tra le due opzioni sia sempre condivisa con la paziente, valutando non soltanto gli aspetti clinici, ma anche l’età e il desiderio riproduttivo.
“Diastasi” significa proprio allontanamento permanente di superfici muscolari od ossee normalmente contigue. La diastasi dei retti addominali consiste nella separazione eccessiva della parte destra dalla parte sinistra del muscolo retto addominale, le quali si allargano, allontanandosi della linea mediana. Quest’ultima è formata da tessuto poco elastico ma molto resistente che, se da una parte rende molto difficile la sua rottura, dall’altra, quando questa avviene, non permette di tornare facilmente alle sue condizioni iniziali.
La diastasi dei retti non è direttamente associata al parto cesareo, come comunemente si crede, ma dipende da altri fattori. La diastasi addominale è una conseguenza principalmente della gravidanza. La causa è dovuta allo stiramento del muscolo retto addominale, operato dall’interno, dall’utero in continuo accrescimento. La gestazione è infatti una delle cause principali della separazione dei muscoli retti addominali. Sia la pressione interna del feto che l’assetto di un nuovo equilibrio ormonale, favoriscono l’assottigliamento dei tessuti connettivi (da qui la creazione della famosa “linea alba”). Se la diastasi addominale si presenta in una gravidanza, maggiori saranno le probabilità che si ripresenti anche nelle successive.
Tuttavia è fisiologico che, a non molta distanza dal parto, i tessuti connettivi siano rilassati. Dopo il primo periodo l’elasticità e la densità dei tessuti riprenderanno i valori iniziali e anche la profondità del buco e le sue dimensioni tenderanno a diminuire. Di norma, la separazione del muscolo retto addominale si risolve entro le prime 8/12 settimane dopo il parto, fino anche a 6 mesi. Se però l’addome rilassato perdura anche dopo, se si gonfia in maniera esagerata dopo ogni pasto, se non migliora nonostante attività fisica costante o se è presente un’ernia ombelicale, è probabile che si sia in presenza di una diastasi addominale post parto.
Solitamente i medici diagnosticano una diastasi addominale quando la distanza tra il muscolo retto addominale destro e quello sinistro è di circa un paio di centimetri. Una distanza inferiore viene considerata patologica.
La distasi fa in modo che i visceri siano meno protetti dalla fascia muscolare e quindi più a rischio di un eventuale trauma.
Tuttavia anche altri fattori possono determinare la comparsa della diastasi addominale. Obesità, sforzi eccessivi (dovuti ad un’attività fisica intensa) o anche una forma di diastasi congenita fanno sì che anche gli uomini siano soggetti a questa patologia.
Si ringrazia per i contenuti Diastasi Italia. Leggi anche l’articolo “Diastasi addominale: patologia ancora poco conosciuta ma 30% delle donne dopo la gravidanza ne sono colpite”
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