Nei paesi industrializzati quasi la totalità delle persone che muoiono sono anziane, cronicamente debilitate o soffrono di gravi malattie degenerative. Troppo frequentemente per loro la fine della vita è un calvario di accanimenti non terapeutici, che magari vorrebbero interrompere, ma che o per mancanza di informazioni o per assenza di una normativa, non sono in grado di cambiare. Anche le scelte di fine vita, come ogni altro aspetto medico, hanno una dimensione di genere. Anche se le differenze appaiono soprattutto rilevanti per quanto riguarda la funzione di cura, che vede le donne subire un impatto più negativo rispetto agli uomini. In ogni caso le donne vivono più a lungo e contraggono con più frequenza malattie degenerative gravemente debilitanti. Inoltre, se non sono malate, si devono prender cura di parenti terminali e quindi si trovano più di frequente a discutere e negoziare con i medici le scelte da fare. Non è a tutti chiaro che si possono rifiutare dei trattamenti medici che tengono in vita, se non c’è speranza di guarigione (ma anche se questa speranza c’è di fatto), e che i medici hanno l’obbligo di trattare il dolore e ogni disagio che sia gestibile clinicamente. La Costituzione garantisce il diritto di ottenere tutte le informazioni che si desiderino e di rifiutare qualunque trattamento, negando il consenso ai medici. Per andare incontro alla crescente attesa sociale di esercitare un controllo anche sulle fasi terminali della vita, la maggior parte dei paesi ha reso legali le direttive anticipate di trattamento (impropriamente dette testamento biologico,) che consentono di rifiutare interventi medici non desiderati anche qualora si sia privi di coscienza. In Italia è in discussione una legge sulle direttive anticipate, che se sarà approvata consentirà anche nel nostro paese di lasciare disposizioni per non morire in modi indesiderati, con valore vincolante per i medici e senza escludere alcun trattamento dalla disponibilità del paziente di rifiutarlo (incluse quindi alimentazione e idratazione artificiale). Nelle fasi terminali della vita si creano le condizioni per diversi tipi di scelte più o meno negoziabili o in alcuni casi ritenute da una maggioranza di paesi illecite e da alcune tradizioni religiose o comunitarie immorali. Stante che tutti ormai dicono di essere contrari agli accanimenti non terapeutici, quindi a tenere in vita con rianimazioni o trattamenti inutili una persona prossima a morire, gli interventi antidolorifici per lenire le sofferenze (medicina palliativa) possono essere somministrati anche in dosi che accelerano la morte. Questa pratica è diffusa, ma in Italia è spesso decisa dal medico, senza discuterne con il paziente e i familiari. La qual cosa non è eticamente e legalmente corretta. Da molti anni i medici che trattano i pazienti terminali concordano o decidono di praticare la sedazione profonda, che consiste nel somministrare un anestetico che priva della coscienza la persona, sospendendo l’alimentazione e lasciandolo morire. Quando e se fare la sedazione terminale in genere lo decide il medico, tranne in Francia dove con la legge de 2015 questa pratica è diventata un diritto per malati terminali, che se la chiedono ed esistono le premesse cliniche non possono vedersela negare. Alcuni paesi negli ultimi decenni hanno reso possibili scelte molto discusse, come il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia. Il suicidio medicalmente assistito, che consiste nell’aiuto del medico a disporre di un farmaco letale che viene assunto dal malato, è legale in Svizzera, dove si recano numerosi malati terminali anche non elvetici. Anche alcuni stati USA hanno legalizzato questa scelta medica di fine vite. Un’altra scelta possibile, l’eutanasia volontaria, cioè la morte del malato causata dal medico, è legale in Olanda, Belgio, Lussemburgo, Canada e Colombia. Nelle discussioni sul fine vita si ascoltano molte opinioni, che però sono spesso basate su impressioni soggettive, sentito dire, pregiudizi, etc. E’ chiaro che su questi temi è facile scivolare verso una china emotiva. Ma, in realtà, si possono dirimere abbastanza bene le controversie, spiegando da cosa dipendono, e dissolvere le nebbie della disinformazione che circonda l’argomento. Indipendentemente da quello che si può pensare o provare intuitivamente è importante tenere presente che regolare legalmente le scelte di fine vita aumenta e non riduce gli spazi di libertà, sia per chi vorrebbe essere tenuto in vita il più lungo possibile, sia per chi vorrebbe autodeterminarsi in un altro modo. Senza una legge si consumano, come testimoniano diversi studi, abusi, e le persone non sono libere di decidere come morire, bensì alla mercé delle situazioni. E’ singolare che le nostre società promuovano l’autonomia e la responsabilità individuali, mentre sottraggono la capacità di autodeterminare a chi vuole continuare a farlo fino all’ultimo e dopo aver speso l’intera esistenza lavorando per il proprio paese. Gilberto Corbellini Direttore del Dipartimento di scienze sociali e umane, patrimonio culturale (Dsu) del Consiglio Nazionale delle Ricerche