Ricostruire il seno colpito da tumore in maniera del tutto simile alla mammella sana con lembo diep. Di che si tratta? Quali i rischi e quali i vantaggi? Ne abbiamo parlato con Fabio Santanelli, cattedra di Chirurgia Plastica, Facoltà di medicina e psicologia dell’Università “Sapienza”, Roma
Professor Santanelli, è possibile ricostruire una mammella, colpita da tumore, con un autotrapianto?
Sì, si tratta di una tecnica operatoria descritta per la prima volta nel 1994 da Allen e da noi utilizzata fin dal 1998, ma purtroppo ancora poco conosciuta. In pratica si ricostruisce il seno asportato per tumore con tessuti autologhi, ovvero la pelle e il grasso della paziente stessa, senza l’utilizzo di protesi. La tecnica, che è conosciuta con il nome di “ricostruzione con lembo DIEP” dall’acronimo inglese Deep Inferior Epigastric Perforator, ricorre all’uso di un’ellisse di cute e grasso addominale al di sotto dell’ombelico, la quale viene trapiantata insieme al sistema dei vasi, laddove è avvenuta l’asportazione mammaria. Questa delicata tecnica renderà possibile la regolare irrorazione del nuovo seno senza ledere la parete muscolare e la sua innervazione, evitando di conseguenza anche rischi di complicazioni a livello addominale.
A chi è indicato e qual è la percentuale di donne che può sottoporsi a questo tipo di intervento?
L’intervento è indicato per le donne che hanno subito o devono subire una mastectomia e di esse all’incirca il 70% potrà sottoporsi a ricostruzione con questa tecnica poiché è necessaria la presenza di cute e grasso addominale in quantità idonee. La scelta cade infatti su questo tipo di tessuto in quanto oltre a consentire risultati molto naturali fornisce alla paziente anche un notevole miglioramento della siluette della pancia (addominoplastica), grazie ai quali la donna si sente maggiormente a suo agio.
Quanto naturali?
Basta dire che l’autotrapianto a differenza delle protesi offre la possibilità di riavere un seno molto simile a quello naturale per consistenza al tatto, calore e comportamento in movimento. Inoltre il seno ricostruito, parimenti a quello controlaterale, ingrassa o dimagrisce con il resto del corpo e subisce i normali processi evolutivi dovuti al trascorrere del tempo.
Quando si effettua l’intervento e quali le maggiori complicanze?
I migliori risultati, sia estetici sia dal punto di vista della sofferenza della paziente, si ottengono se l’intervento di ricostruzione avviene contestualmente all’asportazione. Esso può essere eseguito anche bilateralmente qualora le condizioni lo necessitassero o la donna scegliesse l’asportazione preventiva in caso di tumori aggressivi. L’intervento sebbene complesso, dura in media 4 ore e mezza o 5 ore e mezza qualora si esegua anche l’adeguamento controlaterale. Le complicanze sono però molto limitate e rappresentate prevalentemente dalla necrosi parziale (3%), ossia piccole aree di sofferenza che possono essere trattate successivamente in maniera non invasiva.
Quanti interventi sono già stati eseguiti con questa tecnica?
Nell’arco di sette anni ne abbiamo eseguiti 260 di cui 8 bilaterali, tutti con successo tranne due (0,6%) per i quali si è resa necessaria una soluzione alternativa. Il numero, che potrebbe apparire ancora piuttosto esiguo, è condizionato dal fatto che questa tecnica sebbene sia sovvenzionata dal Servizio Sanitario Nazionale, non è ancora adeguatamente supportata.
Quanto è importante, da un punto di vista psicologico, questo tipo di intervento?
Ritengo che un’operazione di questo genere sia in grado di aiutare la donna evitandole il mortificante periodo successivo alla mastectomia, con lo stress di vedersi per mesi senza seno, in attesa del tempo necessario per l’inserimento di una protesi. Infatti lei entra ed esce dalla sala operatoria comunque con entrambi i seni, avendo sostituito quello malato con uno nuovo in grado di comportarsi in maniera molto simile a quello precedente.
Francesca Morelli