Una metanalisi internazionale condotta su circa 63mila pazienti dimostra che il rischio di recidiva è del 41% nelle donne a più alto rischio (tipicamente quelle con un tumore di diametro più elevato e con multiple metastasi linfonodali alla diagnosi) nell’arco di 20 anni dalla diagnosi. In questa categoria di pazienti, andrebbe valutato il prolungamento della terapia ormonale fino a 10 anni, discutendone con la paziente rischi e benefici. L’oncologo Pierfranco Conte: “Smentita credenza diffusa che dopo cinque anni non vi sia più rischio”
Il tumore della mammella anche quando sembra debellato, può a volte tornare a colpire, a distanza di molti anni dalla fine delle terapie. Per questo è importante continuare a fare gli esami di follow-up (mammografia, ecografia mammaria e pelvica, visita senologica, marcatori ormonali, ecografia del fegato, ecc) per cogliere eventuali recidive sul nascere. Ma nelle donne a rischio più elevato può essere utile rivedere la durata della terapia ormonale (con tamoxifene o con inibitori delle aromatasi, nel caso delle donne in menopausa) estendendola a 10 anni.
Tipicamente, nelle donne con tumori che esprimono recettori per gli estrogeni (ER+), dopo il trattamento chirurgico, radioterapico e chemioterapico, si prescrive per 5 anni la terapia ormonale con tamoxifene o inibitori delle aromatasi. Questo trattamento si è dimostrato in grado di ridurre in maniera importante il tasso di recidive durante e dopo il trattamento nelle donne con tumore della mammella in stadio iniziale, ER+. Si è pensato da tempo alla possibilità di estendere la durata di questi trattamenti oltre i 5 anni, ma in questa scelta devono essere considerati anche gli effetti indesiderati inerenti alla terapia con anti-estrogeni: non solo sintomi simil-menopausa (vampate e secchezza vaginale), ma anche e soprattutto un possibile peggioramento della qualità dell’osso (osteoporosi).
E’ dunque necessario, prima di prendere la decisione di prolungare il ciclo di terapia oltre i 5 anni, valutarne attentamente i pro (vale la pena? Contribuisce a ridurre effettivamente il tasso di recidive?) e i contro (es. rischio di fratture da osteoporosi). Come anche è necessario valutare e stratificare con attenzione le pazienti per il rischio di recidiva, alla sospensione della terapia ormonale. Un importante passo avanti su quest’ultimo punto, viene da uno studio pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine.
Un gruppo di ricercatori di università inglesi, americane, canadesi e svedesi facenti parte dell’Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group (EBCTCG) ha cercato di dirimere la questione con una metanalisi di 88 trial comprendenti un totale di circa 63mila donne con tumore della mammella ER+, senza residuo di malattia dopo 5 anni di terapia endocrina. Queste donne sono state seguite per un periodo di 5-20 anni, durante tutto il quale i ricercatori hanno evidenziato comparsa di recidive a tasso costante.
Il rischio di metastasi a distanza è risultato fortemente correlato al diametro del tumore e allo stato dei linfonodi alla diagnosi(stato TN); tra le pazienti con tumore T1 (dimensioni massime < 2 cm), senza coinvolgimento linfonodale (T1N0), il rischio di recidive a distanza era del 13%; in presenza di 1-3 linfonodi coinvolti (T1N1-3), saliva al 20% e al 34% in caso di 4-9 linfonodi metastatici (T1N4-9).
Nelle donne con stadio T2 (dimensioni massime > 2cm ma < 5 cm) iniziale, in assenza di linfonodi (T2N0) il rischio di recidive era del 19%, saliva al 26% nelle T2N(1-3) e al 41% nelle T2N(4-9).
Il grado tumorale e il fattore prognostico Ki-67 sono risultati di moderato valore predittivo indipendente di metastasi a distanza, mentre non sono risultati predittivi di recidive a distanza, né lo status dei recettori per il progesterone, né quello dei recettori HER2.
Nel periodo di 5-20 anni, oggetto di questo studio, il rischio assoluto di recidiva a distanza tra le donne con cancro della mammella T1N0 è risultato del 10% per le malattie di basso grado, del 13% per quelle di grado moderato e del 17% per quelle di alto grado; i valori di rischio per qualunque tipo di recidiva o un tumore nella mammella controlaterale erano rispettivamente del 17%, 22% e 26%.
Questi risultati stanno dunque a dimostrare che, dopo i 5 anni canonici di terapia ormonale adiuvante, le recidive di cancro della mammella continuano a fare stabilmente la loro comparsa per tutto l’intervallo di osservazione di questo studio, da 5 a 20 anni. Il rischio di metastasi a distanza appare fortemente correlato con lo stato TN iniziale e va dal 10 al 41%, a seconda dello stato TN e del grado del tumore.
“Si tratta di uno studio molto importante – commenta il professor Pierfranco Conte, Ordinario di Oncologia Medica Università di Padova e direttore Oncologia Medica 2 Istituto Oncologico Veneto di Padova – perché porta l’analisi a lungo termine di numerosi studi clinici che hanno incluso decine di migliaia di pazienti. Lo studio dimostra che in caso di tumore ER+ (che rappresenta circa il 70% di tutte le neoplasie) il rischio di ripresa di malattia si mantiene nel tempo e quindi smentisce del tutto la credenza molto diffusa che, passati i 5 anni, non vi sia più rischio.
Rimane invece vero il fatto che per i tumori tripli negativi e HER2+ il rischio è più elevato nei primi due-quattro anni, mentre dopo i cinque anni dalla diagnosi diventa minimo, tendendo ad azzerarsi.
Qualora il rischio di ripresa di malattia sia elevato, e solo in questi casi, ha dunque senso prolungare la terapia ormonale oltre i 5 anni.
Ma se il rischio di ripresa di malattia è molto basso, come per fortuna succede nella maggioranza delle donne operate per tumore al seno, allora continuare una terapia ormonale oltre i 5 anni può provocare effetti indesiderati a volte superiori ai benefici attesi. Se una donna ha un rischio di ripresa di malattia del 10% all’inizio – prosegue il professor Conte – dopo 5 anni di terapia ormonale il suo rischio si sarà ridotto al 3-4%, talmente basso da essere sostanzialmente analogo a quello della popolazione generale. Quindi in questo caso non ha senso fare un trattamento ormonale che, seppur apparentemente innocuo (una compressa al giorno) è pur sempre un trattamento che aumenta il rischio di osteoporosi, di malattie cardiovascolari, di mialgie e dolori articolari, influendo così sulla qualità di vita della paziente.
Il concetto di rischio è comunque molto individuale – conclude il professor Conte – e il clinico dovrebbe discuterlo ogni volta con la paziente, per apprezzare come lei intende il rischio. Dopo aver fatto 5 anni di terapia ormonale, che riduce del 60% il rischio di ripresa di malattia, qualora rimanga ancora un rischio sufficientemente elevato per il quale il clinico avrebbe sin dall’inizio prescritto al terapia ormonale, l’atteggiamento clinico più corretto è dunque quello di discuterne con la paziente la prosecuzione per altri 5 anni”.
Maria Rita Montebelli
Da QS