Secondo uno studio su Bmj nel prossimo decennio il consumo di bevande zuccherate potrebbe essere responsabile della comparsa di milioni di casi incidenti di diabete di tipo 2, indipendentemente dall’obesità. Dice Fumiaki Imamura, dell’unità di epidemiologia del Medical research council, University of Cambridge school of clinical medicine: «Molti considerano le bevande dolcificate artificialmente possibili alternative a quelle zuccherate per ridurre l’introito calorico e prevenire la comparsa di DM2, mentre i succhi di frutta sono reputati una sana alternativa. Tuttavia, non c’erano finora prove sufficienti a chiarire se il consumo di bevande zuccherate, dolcificate artificialmente o succhi di frutta fosse associato al rischio di DM2 tenuto conto della presenza o meno di obesità». Per rispondere alla domanda, un team internazionale di ricercatori guidati da Imamura ha verificato se il consumo abituale dei tre tipi di bevande fosse legato a un aumento a 10 anni dell’incidenza di diabete tipo 2 (DM2) negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Allo scopo gli autori hanno selezionato 17 studi osservazionali, nessuno dei quali finanziato dall’industria, scoprendo che il consumo abituale di bevande zuccherate era positivamente associato con l’incidenza di DM2, indipendentemente dallo stato di obesità. «Tale correlazione era meno evidente con le bevande dolcificate artificialmente o con i succhi di frutta» precisano gli autori, sottolineando tuttavia che gli studi su questo tipo di bevande sono limitati e che è comunque improbabile che siano un modo sano per prevenire la comparsa di DM2. «Va in ogni modo chiarito che gli studi analizzati, tutti di tipo osservazionale, non consentono di trarre conclusioni definitive sulla presenza o meno di un legame causa effetto tra DM2 e bevande zuccherate» spiega Imamura. Tuttavia, supponendo un nesso causale, i ricercatori stimano che tra il 2010 e il 2020 due milioni di nuovi casi di DM2 negli Stati Uniti 80.000 nel Regno Unito, 2010-2020 sarebbero legati al consumo di bevande zuccherate.
BMJ 2015;351:h3576 doi: 10.1136/bmj.h3576
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