Grazie a tecniche di imaging, rilevate riduzione di materia grigia e aumento di materia bianca negli schizofrenici che non rispondono alle terapie. Lo studio su Lancet Psychiatry.
(Reuters Health) – Alcuni aspetti neurobiologici della schizofrenia potrebbero essere alla base della resistenza ai trattamenti di certe forme del disturbo mentale. E queste diversità potrebbero essere prese in considerazione come biomarkers per valutare l’efficacia delle terapie. Lo ha evidenziato uno studio inglese pubblicato su Lancet Psychiatry. “Non sappiamo se i casi di schizofrenia resistenti ai trattamenti siano forme più severe o se c’è una differenza psicopatologica. – ha dichiarato uno degli autori dello studio, Robert McCutcheon dell’Institute of Psychiatry al King’s College di Londra – La nostra ricerca mostra che il motivo risiede in entrambe le ipotesi avanzate. n alcuni parametri, come la riduzione della materia grigia, i pazienti resistenti alle terapie sembrano avere livelli più severi di alterazione rispetto a chi risponde alle terapie, mentre su altri esami di funzionamento neurochimico sembra che ci siano altri processi coinvolti nella diversa risposta ai trattamenti”.
La review
I ricercatori inglesi hanno condotto una revisione della letteratura scientifica per identificare studi di neuroimaging che avevano analizzato pazienti resistenti a trattamenti o quelli in terapia con clozapina, tra il 1980 e il 2015. Dei 330 articoli inizialmente individuati, 61 sono stati inclusi nella review. Tra le differenze più frequenti tra pazienti resistenti e responsivi alle terapie c’erano la riduzione della materia grigia e della perfusione della regione fronto-temporale, insieme a un aumento della materia bianca e della perfusione dei gangli della base. In particolare, di undici studi che paragonavano i pazienti che rispondevano alle terapie con controlli sani mediante immagini raccolte con la Risonanza Magnetica, in cinque sono stati trovati diminuzione della materia grigia nei pazienti analizzati. Altri studi hanno invece evidenziato la riduzione della materia grigia in più di 25 diverse aree del cervello nei pazienti resistenti a trattamenti. Tre studi, basati su tomografia computerizzata a emissione di singolo fotone, hanno mostrato la riduzione della perfusione nelle aree frontali, mentre uno studio ha mostrato l’aumento del rapporto di perfusione nei gangli della base, un dato che è stato poi confermato da altri studi.
Ricerche che hanno anche evidenziato una riduzione della perfusione nella corteccia prefrontale dorsolaterale, associata con sintomi severi di schizofrenia. In 16 studi, che mettevano a confronto pazienti che rispondevano alle terapie con pazienti che invece non avevano beneficio, sette studi che utilizzavano la Risonanza Magnetica hanno mostrato una riduzione della materia grigia nei pazienti resistenti, e due studi, in particolare, hanno evidenziato un aumento della materia bianca in quei pazienti.
Due ricerche eseguite con Tomografia a emissione di protoni (PET) hanno mostrato che i pazienti resistenti potrebbero avere una diversa attività dopaminergica rispetto a chi rispondeva alle terapie. Inoltre, in 35 studi su 844 pazienti e 322 controlli in totale, le immagini dalla TAC hanno mostrato che gli spazi tra i solchi della corteccia prefrontale erano più piccoli nei pazienti in terapia con clozapina rispetto ai malati che non rispondevano a questo trattamento. Altri studi che valutavano l’effetto della clozapina hanno trovato che i pazienti in cura con l’antipsicotico avevano una riduzione nel volume del nucleo caudato, dove invece i pazienti trattati con altri farmaci avevano un aumento del volume nella stessa zona, e la riduzione maggiore si aveva tra i pazienti che rispondevano alla cura rispetto a chi non rispondeva.
I commenti
“Questo studio dimostra che l’effetto della clozapina potrebbe essere relazionato alla capacità di normalizzare la funzione e la struttura del corpo striato, un dato che conferma la ridotta affinità del farmaco per il recettore D2”, hanno scritto i ricercatori. “C’è spesso un ritardo nell’identificare i pazienti resistenti e nell’offrire loro il migliore trattamento – ha dichiarato McCutcheon – questo è un campo dove c’è un gran bisogno di migliorare le terapie e identificare subito i pazienti resistenti. La ricerca sulla neuroimaging ha il potenziale di aiutare in entrambi questi sforzi, anche se la nostra ricerca mostra che ci vorrà ancora molto lavoro prima che queste tecniche possano avere un’applicazione clinica diretta”. “La risonanza magnetica e l’elettroencefalogramma potrebbero essere indicati in qualche caso di schizofrenia resistente per capire se ci sono cause organiche. L’uso della PET, tuttavia, continuerà ad essere limitato a scopi di ricerca. E nessuna tecnica di imaging è attualmente utilizzata per guidare la scelta dei trattamenti nella pratica clinica standard”, ha conclusoMcCutcheon.“In ogni caso per determinare il ruolo chiave della neurobiologia nella resistenza ai trattamenti e per identificare eventuali markers ci sarebbe bisogno di studi più approfonditi”, ha concluso.
Fonte: Lancet Psychiatry 2016