Tumori dell’ovaio

Il tumore dell’ovaio, chiamato nel mondo anglosassone “the silent killer”, è tra le malattie oncologiche di più difficile approccio. Per due ragioni, fondamentalmente: la sua biologia particolarmente “aggressiva” e l’assenza di sintomi specifici soprattutto nelle fasi inziali. Una caratteristica, quest’ultima, che porta a effettuare quasi 7 diagnosi su 10 quando la malattia è già in fase avanzata e dunque con ridotte possibilità di cura. Questo spiega perché, ancora oggi, il carcinoma dell’ovaio rappresenti la più comune causa di morte ginecologica.

Sebbene rappresenti la seconda forma di cancro più diffusa che può colpire un organo dell’apparato riproduttivo femminile (dopo quella dell’endometrio), i numeri del tumore dell’ovaio sono ancora piuttosto contenuti (per dati aggiornati “Numeri del cancro in Italia”: https://www.aiom.it/i-numeri-del-cancro-in-italia/ ).

Ad oggi non sono disponibili indagini diagnostiche validate su larga scala e utilizzabili come possibile screening da estendere alla popolazione femminile per una diagnosi precoce. Tuttavia, negli ultimi anni – grazie all’utilizzo più diffuso dell’ecografia transvaginale, agli sviluppi legati alla genetica e alla disponibilità di nuovi farmaci che consentono di cronicizzare la malattia – si è assistito a un progressivo aumento della sopravvivenza anche per le pazienti con tumore avanzato.

La ricerca in questo campo ha compiuto enormi passi in avanti, consentendo di comprendere alcuni meccanismi responsabili della moltiplicazione delle cellule tumorali, potenziale bersaglio per farmaci sempre più specifici ed efficaci.

Insights

La malattia ha origine nei tessuti che compongono i due organi, situati alla destra e alla sinistra dell’utero e a esso collegati attraverso le tube di Falloppio. Le funzioni dell’ovaio sono due: produrre ormoni sessuali femminili (estrogeni e progesterone) e ovociti (le cellule riproduttive femminili).

Il tumore è provocato dalla proliferazione incontrollata dei tre tipi di cellule che compongono il tessuto: quelle epiteliali (nella maggior parte dei casi, pari all’incirca al 90 per cento delle diagnosi), quelle germinali e quelle stromali.

Come per quasi tutte le malattie oncologiche, anche il rischio di ammalarsi di tumore dell’ovaio è condizionato dalla presenza di alcuni fattori di rischio:

Età: in genere viene diagnosticato dopo la quarta decade di vita, con picchi massimi tra i 50 e i 70 anni.

Familiarità: la maggior parte dei tumori ovarici è sporadica, tuttavia circa il 10-20% delle neoplasie ovariche riconosce, quale fattore di rischio principale, la familiarità. Massima rilevanza assume infatti un’anamnesi familiare positiva per tumore ovarico, con un aumento del rischio di circa quattro volte.

Fattori genetici: la positività alle mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2 (responsabili delle forme ereditarie anche dei tumori al seno, alla prostata e al pancreas) sono responsabili del 15-20% dei nuovi casi di tumore dell’ovaio.

Fattori ormonali: prolungato periodo ovulatorio (menarca precoce, prima gravidanza dopo i 35 anni, menopausa tardiva, nulliparità).

Obesità: numerose sono le evidenze scientifiche a dimostrazione di una correlazione tra obesità (in particolare dopo la menopausa) e tumore ovarico. Si ipotizza che la sovra-produzione di estrogeni a livello del tessuto adiposo stimoli la crescita delle cellule ovariche, predisponendo allo sviluppo di cancro ovarico.

Esposizione a sostanze tossiche (come l’asbesto).

Abuso di alcol.

Numerosi studi epidemiologici, inoltre, hanno documentato che il tasso di tumore ovarico è più alto nei Paesi maggiormente industrializzati, in cui la dieta è più ricca di grassi animali.

Sono invece fattori protettivi, che dunque diminuiscono il rischio d’insorgenza del tumore, la multiparità (aver avuto più figli), l’allattamento al seno e il prolungato impiego di contraccettivi orali estro-progestinici. Ovvero, in sostanza, tutte quelle condizioni che mettono a riposo l’ovaio.

sintomi del tumore ovarico, tardivi e aspecifici, sono per lo più riferibili alla presenza di ascite (liquido in addome), all’ingrandimento della massa tumorale o alla presenza di metastasi. La malattia tende a manifestarsi con la distensione addominale, il dolore pelvico, il bisogno frequente di urinare e la stipsi. Meno frequentemente compaiono inappetenza e sensazione di sazietà a stomaco vuoto.
Nel caso del tumore ovarico non è purtroppo possibile “giocare d’anticipo”, poiché ad oggi non si dispone di procedure diagnostiche con adeguata sensibilità e specificità, tali da consentire una diagnosi precoce. In assenza di un’efficace strategia di screening (com’è la mammografia per il tumore al seno o l’HPV-test per il cancro al collo dell’utero), è buona regola sottoporsi con ricorrenza annuale a una visita specialistica ginecologica per una valutazione clinica ed ecografica delle ovaie.

Il marker del tumore ovarico, l’antigene tumorale CA125, risulta un valido indicatore dell’attività della malattia e della risposta al trattamento nel monitoraggio post-operatorio, ma ha una scarsa efficacia diagnostica in quanto ha una bassa specificità (elevati valori plasmatici si riscontrano anche in caso di patologie benigne o di tumori maligni in altre sedi) e sensibilità (la presenza di un tumore ovarico spesso non si associa ad un incremento dei suoi livelli nel sangue). Per questo l’interpretazione dei valori di questo marker per la diagnosi deve essere integrata in un contesto più ampio, che comprende tutti i risultati offerti dalle indagini cliniche e strumentali.

Il 15-20% dei tumori ovarici epiteliali sono di origine genetico-ereditaria, causati cioè da mutazioni genetiche (geni BRCA1 e BRCA2) trasmesse dai genitori ai figli. La presenza di mutazioni a carico di questi geni aumenta il rischio di sviluppare un tumore al seno e/o all’ovaio rispetto alla popolazione generale. In relazione a questo e alla registrazione di nuovi farmaci cd. “a bersaglio molecolare”, le più recenti linee guida nazionali ed internazionali consigliano di inviare tutte le pazienti affette da tumore ovarico (con istologia sieroso ad alto grado ed endometrioide) a test genetico BRCA1/2. Inoltre, le donne sane con storia familiare positiva per tumore ovarico e/o mammario possono essere indirizzate a consulenza genetica e, se ritenuto indicato, a successivo test per la ricerca di mutazioni a carico dei geni BRCA 1 e BRCA2. Uno degli obiettivi del test BRCA è, quindi, individuare le donne ad alto rischio disviluppare un tumore della mammella e/o dell’ovaio e di offrire loro programmi mirati di sorveglianza attiva con periodicità diverse rispetto alla popolazione generale e interventi di Chirurgia di riduzione del rischio (mastectomia e annessiectomia profilattica).

L’aspetto più critico di questa malattia è rappresentato dal fatto che, restando silente per lungo tempo, in quanto priva di un quadro sintomatologico specifico, nel 70-80% dei casi la diagnosi viene formulata tardivamente, quando il tumore ha raggiunto dimensioni critiche e si è già diffuso localmente o a distanza. Ben più raro è il riscontro di una neoplasia limitata alle ovaie o alla pelvi, il più delle volte scoperta occasionalmente durante controlli ginecologici routinari. Questo comporta una drastica riduzione delle chance di successo del trattamento.

Il programma terapeutico viene definito in base allo stadio della malattia (caratteristiche istologiche, dimensioni, invasività).

Nelle pazienti con tumore in stadio iniziale, la chirurgia è curativa nel 70% dei casi, ma in considerazione del rischio di recidiva (rilevabile nel 25-30% dei casi) in molte situazioni è indicato un trattamento chemioterapico adiuvante.

Nel carcinoma ovarico in fase avanzata (stadio III e IV) la chirurgia, quando radicale, rappresenta il trattamento da prediligere. Per le donne non candidabili a un intervento radicale, una valida alternativa è data dall’inizio di un trattamento chemioterapico neoadiuvante, seguito da poi dalla chirurgia e da altri cicli di chemioterapia.

Negli ultimi anni sono stati introdotti nuovi farmaci “biologici” e farmaci cosiddetti “target” (o “a bersaglio molecolare”), impiegati in associazione alla chemioterapia e/o come terapia di mantenimento, che agiscono verso specifici bersagli identificati come particolarmente importanti nella crescita del tumore.

È importante affidarsi a strutture specializzate in cui siano presenti tutte le figure professionali necessarie a garantire un approccio multidisciplinare e che abbiano maturato un’ampia esperienza clinica e chirurgica sul campo.

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